Come sarà l’economia del dopo Covid-19?

Come sarà l’economia del dopo Covid-19 è una domanda non così semplice e forse perfino mal posta. Perché? Perché già ora niente è come prima.

Sfortunatamente, si leggono in giro – nei quotidiani, nei blog e sui social – molte cose strampalate tra cui gli attacchi alla Germania e all’Olanda che non vogliono concedere aiuti.

Non è che se ignori le cose quello che dici è più valido.

Gramsci diceva che la storia insegna ma non ha scolari, è tutto quello che mi limito a dire, aggiungendo un Intelligenti Pauca ma non faccio molto affidamento su questo. D’altra parte, è molto facile sparare a zero o cercare capri espiatori quando si conoscono poco le cose, o anche per niente.

Qualcuno fa anche notare ai percettori di reddito di cittadinanza che al momento esistono 200 mila posti vacanti in agricoltura. Mancano braccianti. I vituperati migranti che venivano a rubarci il lavoro non sono in grado di sopperire, pertanto c’è posto, fatevi avanti.

Staticamente critici.

Un’altra cosa in cui l’Italia eccelle è la staticità. Anche nel Regno Unito le attività non essenziali sono chiuse ma le imprese si stanno dando da fare per aumentare la loro capacità di penetrazione nel mercato digitale, nel lavoro a distanza e stanno dunque cogliendo l’opportunità di completare la digitalizzazione dei loro processi e interazioni commerciali. Forse in Italia non si tratta di completare però, bensì di iniziare.

Non sarà facile per nessuno, in nessun Paese al mondo, nemmeno nel Regno Unito, in Germania, negli USA – che ora sono in un’emergenza perfino peggiore se vogliamo. Tuttavia, se tutto ciò che si sa produrre è solo debito, allora oltre le magagne del sistema in sé si sommano anche quello particolari, proprie di un Paese dove lo sguardo più lontano arriva non oltre il confine della propria casa o negozio o attività, come preferite.

L’arretratezza del sistema patrio non impedisce però di criticare a destra e a manca.

Virus, Produzione e… chi ci ha tirato questo scherzo?

A parte la singolare ingenuità di pensare che questa crisi ha a che fare solo con un brutto scherzo della natura e non con lo scempio del territorio e l’intensiva produzione – soprattutto agricola – che il nostro sistema economico – mondiale! – adotta quale metodo di creazione della ricchezza, il coronavirus cambierà definitivamente il modo in cui il mondo produce e commercia. Le aziende saranno costrette a ripensare le loro filiere del valore, progettate per massimizzare l’efficienza e i profitti.

Scusate, dimenticavo, non è solo un brutto scherzo della natura, è anche colpa dei cinesi, o di qualche altro capro espiatorio. Perché se non è colpa di qualcuno, allora come la mettiamo con la nostra stupidità e inefficienza? E che ne sarà del nostro proverbiale vittimismo? Perché, essendo bravi, capaci, competenti e intelligenti, non può non essere colpa di qualcuno, vero?

Vi invito a leggere il libro di Robert Wallace BIG FARMS MAKE BIG FLU per capire cosa significa la produzione intensiva di cibo. Personalmente, da almeno 30 anni lavoro con aziende del settore agroalimentare e una delle cose di cui si lamentano di più è per le troppe regole nell’igiene. Non aggiungo altro.

Ah, se non c’è dietro una cospirazione, i poteri forti o qualcuno da crocifiggere non sappiamo proprio come andare avanti…

Niente sarà più come prima.

Beata Javorcik – non l’ultima arrivata – economista polacca e ai vertici della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, fa alcune puntualizzazioni alquanto interessanti.

Condivido molto di quello che dice e giusto ieri in una riunione via Skype con alcuni colleghi della LSE discutevamo queste posizioni.

La sua convinzione è che “Prima o poi vinceremo la battaglia con questo virus ma niente tornerà come prima.” Può qualcuno darle torto?

La Javorcik fa anche notare che la partita tra USA e Cina, non nuova, non è per niente conclusa.

Ben prima dell’emergenza coronavirus molti vedevano la globalizzazione fortemente compromessa dalla guerra commerciale tra USA e Cina. Giocavano a punzecchiarsi con reciproci dispetti e con la convinzione che ognuno era assolutamente nel giusto.

La globalizzazione è un’esperienza terminata? Questa è pura ingenuità.

La Javorcik non considera affatto conclusa la globalizzazione e non credo che nessuno dotato di buon senso possa essere in disaccordo.

Se per globalizzazione intendiamo il traffico delle merci da ogni dove nel mondo, incluso ovviamente il traffico delle idee – o lavoro intellettuale di qualunque tipo se preferite – allora vorrei sommessamente far notare che queste è sempre esistito. Nell’antichità il mondo conosciuto dalle varie civiltà era limitato per ovvie ragioni ma gli scambi commerciali e intellettuali avvenivano anche in quelle epoche remote. Non ne abbiamo forse prova data dall’archeologia e dalla storia?

In cosa differisce la globalizzazione capitalistica? Che il capitale segua le vie del profitto non è una scoperta di oggi. Che le filiere di produzione e di distribuzione si debbano ripensare è chiaro ma che la globalizzazione sia giunta al termine e ogni Paese segua la via autarchica questo non è tanto anacronistico quanto invece insensato.

Il can-can sulla Germania egoista, parte del debito della Seconda guerra mondiale abbuonato nel 1953, Kohl che si dimentica di pagare il saldo una volta riunificate le due Germanie, andrebbe approfondito con studi storici e non ripetuto senza cognizione di causa. Un indizio? La guerra fredda! Ancora una volta, Intelligenti Pauca.

Sappiamo creare sviluppo?

Se poi siamo solo vittime di poteri che non controlliamo, di complotti o di guerre più o meno dichiarate, allora il problema non è se restare in Europa o meno. La questione è se sappiamo creare sviluppo o se dobbiamo uscire dalla storia e dal mondo.

Sulla Harvard Business Review di fine Marzo, un interessante articolo metteva in luce l’aspetto delle filiere. Il coronavirus è un campanello d’allarme per la gestione delle filiere di approvvigionamento, perché molte imprese saranno costrette a ri-mappare le loro fonti di fornitura.

Queste cose non si possono fare se non con l’ausilio di software efficienti e di personale qualificato. A Londra, aziende – mie clienti e non – stanno integrando nei loro sistemi digitali processi di raccolta di ordini, chatbot che consentono l’interazione efficiente con i clienti, app mobili e così via. In Italia, ad eccezione di un mio cliente nel settore della logistica che già aveva implementato questi programmi da 2 anni, nessuno degli altri si è mosso malgrado sia stato da me sollecitato.

Ho fatto così un giro di telefonate chiamando amici di aziende italiane del settore informatico e tutti mi dicono la stessa cosa. Escluso chi era già organizzato in tal senso, e poche – molto poche – imprese lungimiranti, nessuno fa niente. Scusate, di cosa stiamo parlando? Il criterio che i soldi si devono investire per migliorare sembra che in Italia sia una bestemmia.

I cambiamenti ci sono sempre stati, in tutte le epoche e noi ne abbiamo conosciuti parecchi, a partire dalle questioni prettamente italiane fino agli attentati dell’11 Settembre 2001, la crisi finanziaria del 2008, lo tsunami giapponese e altri. Tuttavia, questo è un cambiamento ancora più sconvolgente.

Questa volta è diverso. Questo è uno shock che non avevamo mai conosciuto prima. Non si può più dare per certo che gli impegni (dazi etc.) sanciti dal WTO (World Trade Organization) rimangano tali, è molto probabile che vi siano aumenti dovuti a politiche di protezionismo.

La provincia di Hubei, il centro produttivo del mondo.

La provincia di Hubei, la cui capitale è Wuhan, dove sarebbe scoppiata l’epidemia, è un centro manifatturiero ad alta tecnologia, sede di aziende locali e straniere altamente integrate nei settori automobilistico, elettronico e farmaceutico. Lo Hubei rappresenta il 4,5% del prodotto interno lordo cinese; La cosa che però forse pochi sanno è che ben 300 delle 500 principali aziende del mondo hanno sedi a Wuhan. Già nelle prime settimane dello scoppio del coronavirus – prima che venisse proclamata come pandemia – le filiere di approvvigionamento avevano subito rallentamenti e blocchi in tutti i continenti.

Molte di queste aziende non avevano un piano B per potersi rifornire da altri fornitori in altri luoghi. Più della metà delle imprese intervistate dal Shanghai Industry Commerce and Industry Club ha riferito che le loro filiere di approvvigionamento sono state colpite dall’epidemia. Meno di un quarto ha dichiarato di avere piani di produzione o di approvvigionamento alternativi in caso di interruzione prolungata. Gli effetti a catena possono essere maggiori poiché le aziende spesso non sanno dove si trovano i fornitori dei loro fornitori. Ecco cosa significa il processo di ri-mappatura messo in evidenza dagli economisti di Harvard. Uno di loro, in un colloquio telefonico della scorsa settimana mi diceva che alcune imprese stanno unendo gli sforzi e hanno già cominciato a finanziare la creazione di basi dati molto efficienti che saranno il nuovo punto di partenza. Conosco come lavorano da quelle parti per avere partecipato a progetti comuni, quanto credete che ci metteranno?

Nel settore agroalimentare queste banche dati esistono da tempo, create e condivise da vari consorzi e enti di gestione dei mercati, finanziate per lo più dalle stesse imprese. Esistono in Italia? No! Ho personalmente proposto la realizzazione di un software di questo tipo lo scorso anno qui in Italia – non riferisco nomi, luoghi e imprese – sapete cosa mi è stato risposto?

A cosa mai ci servirebbe?

Ribadisco la mia perplessità: Di cosa stiamo parlando?

Anche il settore sanitario è interessato da queste cose. Ad esempio, quasi tre quarti dei fluidificanti del sangue importati dall’Italia provengono dalla Cina. Lo stesso vale per il 40% degli antibiotici, nella stessa percentuale anche da Germania e Francia. Ma qualcosa mi dice che in Germania le cose siano organizzate diversamente. Dopo oltre 20 anni di conoscenza del loro sistema grazie a rapporti commerciali e progetti sviluppati con varie aziende, ne sono certo!

I nuovi luoghi della produzione

Ma se la Cina non sarà più il produttore del mondo chi ne prenderà il posto?

La resilienza diventerà la nuova parola d’ordine. Le imprese penseranno di più a diversificare la propria base di fornitori per proteggersi da eventuali blocchi dovuti a qualunque problema, dalle emergenze sanitarie a questioni politiche o prettamente commerciali. Questo potrebbe significare anche duplicare i depositi di merce e rivedere i sistemi di partnership. Il Covid-19 quindi porta con sé anche il messaggio della fragilità degli accordi commerciali interaziendali, oltre che di carattere politico. I livelli di classificazione dei fornitori dovranno essere rivisti e questo potrebbe anche andare a scapito della qualità, come potrebbe anche aumentarla in certi casi. Sicuramente, potrebbero risentirne i prezzi.

Organizzazione e informatizzazione: la base per incanalarsi nel cambiamento

L’organizzazione avrà un aspetto rilevante affinché tutto funzioni alla perfezione. Software sempre più specializzati avranno maggiore rilevanza – lo stesso mercato del software e le metodiche di sviluppo sono al vaglio e stanno già subendo importanti modifiche, molti software saranno rottamati per sempre e anche le aziende digitali subiranno notevoli ridimensionamenti.

Attenzione anche alla questione del cambiamento climatico. Ora non se ne parlo più tanto ma è implicito che il mondo respiri di più a industrie ferme. I parametri andranno rivisti e dovranno essere prese misure in tal senso.

Nuovi Paesi dovranno emergere. L’est europeo è un candidato a sostituire la Cina nella produzione, così come alcuni indicano anche il Messico e altri luoghi dell’America Latina. Non è pensabile che le nazioni del sud America rimpiazzino la Cina tout court ma c’è chi pensa a questa soluzione, soprattutto negli Stati Uniti. Attenzione, gli americani hanno già fatto sapere che Maduro, il dittatore venezuelano deve rispondere di traffico internazionale di droga e di avere favorito l’ingresso negli Stati Uniti di ingenti quantità di stupefacenti. Un caso?

Le aziende che non riusciranno a tenere il passo con il cambiamento saranno destinate a fallire. Questo vale anche – soprattutto – per le piccole attività e per quelle il cui mercato è localizzato nei piccoli centri.

Il modello Amazon – facendo tutte le modifiche necessarie – è sempre più in auge.

In ogni caso, Paesi come Albania ma anche Bielorussia, Ucraina, e perfino Mongolia potranno subentrare al ruolo della Cina, la quale peraltro non sarà definitivamente – e non da subito – fuori dai giochi.

Non solo Est Europa

Non solo i Paesi dell’Europa dell’est, a partire dall’Albania, ma anche la Spagna potrebbe essere il luogo ideale per impiantare nuovi stabilimenti.

No! Nessuna fine della globalizzazione. Semplicemente – si fa per dire! – un cambiamento epocale.

La prossima settimana, con il mio gruppo, avremo un contatto con Ian Bremmer, CEO di Eurasia Group, scambieremo punti di vista e sicuramente impareremo nuove cose e ne sapremo di più.

Happy Lockdown, and Stay Safe!

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