Il coinvolgimento qui inteso è sinonimo di attaccamento o devozione. È quella forza affettiva che ogni individuo esprime in funzione della propria connessione emotiva nei confronti dell’azienda o istituzione per cui lavora.
Qui ci sono una serie di miti da sfatare, tutti molto in voga purtroppo e tutti molto nocivi per una buona gestione.
Sovente mi capita di dire che la vera formazione va anzitutto data all’imprenditore e ai dirigenti e poi al personale. Se il cosiddetto management non cambia paradigma, allora non è possibile creare i presupposti per ottenere efficienza e risultati.
Il rapporto imprenditore / lavoratori
Nel precedente capitolo abbiamo visto come sia necessario abbandonare certi termini con cui indichiamo le persone che lavorano nella nostra azienda. Tra i termini da evitare non abbiamo incluso “dipendente” che di per sé è veramente una brutta parola se usata per indicare un lavoratore.
Lo è soprattutto perché questo rapporto di “dipendenza” – che pure nei fatti è sancito dal contratto di lavoro – suggerisce una relazione che nasce problematica.
Che il contratto di lavoro salariato, quindi subalterno, instauri un rapporto di potere tra datore e lavoratore è nell’ordine delle cose; tuttavia, possiamo decidere di vivere questa relazione in un modo diverso da una mera relazione di dominio.
Obbligare le persone a fare le cose non è mai la via giusta. Come imprenditori dovremmo abituarci a considerare le persone che lavorano con noi e non per noi. Questo è già un bel passo avanti.
Inoltre, chi è “dipendente” attende di ricevere ordini e teme di assumere iniziative. Meglio infondere fiducia e fare sì che le persone siano responsabilizzate piuttosto che sottoposte.
Quando ci lamentiamo che i lavoratori mancano di intraprendenza, ci siamo mai chiesti se questo loro atteggiamento non sia suscitato dal modo gerarchico e minaccioso con cui usiamo creare le relazioni all’interno della nostra organizzazione?
Tuttavia, sebbene “dipendente” è uno di quei termini che non ci piace, qui lo usiamo come sinonimo di lavoratore, precisando che non intendiamo considerarlo come qualcuno che deve necessariamente subordinare il suo comportamento, obtorto collo, ai nostri ordini.
Obbligo e responsabilità.
Quando mi capita di parlare di questi aspetti con alcuni imprenditori e dirigenti, non raramente vedo espressioni di dubbio e perfino smorfie di palese contrarietà.
Come? Io non ho il diritto di comandare nella mia azienda?
Vorresti dirmi che devo lasciare che i miei dipendenti facciano quello che vogliono?
E via di questo passo.
Riflettiamo un attimo su cosa sia la responsabilità e cosa sia invece l’obbligo.
Un ordine, come sappiamo, è un’imposizione data da chi comanda a chi è comandato. Questo rapporto è chiaramente una relazione di dominio tra comandante e subalterno.
Lo schema dell’ordine, o imposizione, è il seguente:
Devi fare A altrimenti ti succede B
Quel “ti succede B” è quello che chiamiamo punizione, o sanzione. Se non fai quello che ti dico ne subirai le conseguenze.
Che libertà ha il subalterno di decidere se eseguire o meno l’ordine? Direi nessuna, visto che la punizione non gli lascia scampo. Eseguirà quindi il compito ma non è detto che lo capisca, che ne colga l’importanza. Difficilmente si creerà una coscienza della bontà di quell’azione.
Ma c’è un aspetto molto inquietante che scatena una serie di conseguenze dannose. Chi è obbligato ad eseguire l’ordine, non avendo libertà, non ne è nemmeno responsabile. Ne è invece responsabile chi comanda l’ordine, poiché ha il potere di farlo e di punire se non viene eseguito. Responsabilità e libertà sono infatti indissolubilmente legate tra loro.
Anziché relazioni di dominio dovremmo quindi instaurare relazioni di collaborazione con le persone con le quali lavoriamo.
Dire alle persone, “Dobbiamo fare A perché facendo A conseguiremo il risultato B” è ben diverso dallo schema dell’ordine. Se poi aggiungiamo anche che formiamo il personale su tutti i processi coinvolti nell’azione A e magari chiediamo anche il loro parere su possibili meccanismi e prassi che possono migliorare quei processi o anche quali altri risultati potrebbero raggiungersi, otteniamo la loro stima e piena collaborazione.
Cosa è importante in un’azienda? Che i lavoratori temano i loro capi oppure che l’ambiente sia disteso e si produca in tutta serenità? Quale dei due sistemi favorisce maggiore produttività?
Le cose di cui un imprenditore deve essere capace
So perfettamente che questo approccio incontra molte resistenze ma è oramai adottato in tante aziende in vari Paesi e i risultati sono eccellenti.
In questi anni ho potuto confrontarmi con tanti colleghi, dirigenti, imprenditori e ovviamente ho avuto a che fare con tanti lavoratori. Questo scambio di idee e di diverse culture mi ha portato a considerare che ci sono almeno dieci cose che ogni imprenditore deve essere capace di fare:
- Essere sempre sé stesso
- Favorire la trasparenza e il dialogo
- Conoscere ogni persona che lavora nella sua azienda
- Saper apprezzare il lavoro fatto bene ed esserne riconoscente
- Fornire la miglior tecnologia compatibilmente con le risorse finanziarie disponibili
- Incoraggiare le idee e discuterle liberamente anche quando rappresentano potenziali rischi
- Saper coinvolgere e infondere fiducia
- Dare libertà e autonomia
- Incoraggiare le persone a fare cose che pensano di non essere in grado di fare
- Fare emergere il meglio da ognuno
Per fare ciò è necessario aprirsi a nuovi orizzonti di conoscenza e a nuove esperienze più vivificanti e appaganti e soprattutto abbandonare certi miti altamente malsani per la salute dell’impresa.
Mito #1 – I lavoratori devono essere emotivamente attaccati all’azienda.
È purtroppo molto comune pensare che se un lavoratore non è appassionato dell’azienda è un cattivo dipendente.
Qui l’imprenditore deve porsi alcune domande.
La persona in questione è nel ruolo giusto?
È stata responsabilizzata?
Comprende la missione e la visione dell’azienda?
È stata formata adeguatamente?
L’ambiente di lavoro è sereno e dispone di tutta la sicurezza e quanto necessario ad alleviare la fatica e favorire la creatività?
Che motivazione ha per fare un buon lavoro?
Mi capita sovente di trovare queste situazioni in molte aziende. Persone che non sono affatto cattivi lavoratori ma che non sono inquadrati nel modo giusto, non sono adeguatamente formati e non percepiscono quindi il valore che possono apportare al ciclo produttivo. In molti casi non hanno chiaro quale sia veramente la missione dell’azienda perché nemmeno l’imprenditore, al di fuori di voler incrementare i profitti, ha chiaro cosa deve fare.
Se non si crea la giusta connessione con le persone, non si può pretendere nessuna fedeltà da parte loro. Se poi pensiamo che ogni nostro dipendente deve essere un entusiasta dell’azienda, allora entrano in gioco anche questioni personali dell’imprenditore stesso. Non è che sia il caso di rivedere la percezione di sé e delle proprie opere? In altre parole, quale grandiosità e prestigio esprimo io come persona e di conseguenza la mia azienda perché uno dei miei dipendenti non si senta totalmente attratto e appassionatamente vincolato all’impresa?
E se la passione di un lavoratore che offre eccellenti prestazioni non è il suo lavoro ma invece la musica, che c’è di male? Trovare qualcuno che vive per l’azienda sa di patologico, non credete?
Mito #2 – Se un lavoratore non rende ottime prestazioni allora è nel posto sbagliato
Le prestazioni possono essere scarse per mancanza di formazione e di motivazioni. Talvolta capita che le persone addette a svolgere certi compiti non hanno nemmeno gli strumenti giusti per farlo.
Un datore di lavoro pretendeva che un suo dipendente organizzasse e gestisse un database di varie migliaia di clienti con i quali vi erano numerose relazioni facendo uso di Excel, uno strumento non adatto per questo compito. Era necessario infatti un software CRM.
Un CRM – Customer Relationship Management – è un programma che consente la gestione delle relazioni con i clienti attuali e potenziali e che registra e analizza le diverse interazioni tra azienda e questi soggetti.
Le giuste tecnologie, con una appropriata formazione, danno al lavoratore padronanza e sicurezza. Solo allora potremo valutarne i risultati. Chiaramente, bisognerà anche tenere conto delle conoscenze di base di quella persona e delle sue inclinazioni naturali, non escludendo però che possa fornire eccellenti risultati anche in applicazioni dove lui o lei non pensava affatto di potersi dedicare con profitto.
Mito #3 – I dipendenti soddisfatti sono dipendenti appassionati e attaccati all’azienda
La soddisfazione che mostra una persona è spesso confusa con il suo impegno e attaccamento all’azienda.
Vari studi hanno dimostrato che esistono individui soddisfatti ma che non hanno alcuna devozione per l’azienda. Si può essere contenti dei propri colleghi o dei propri risultati, così come dello stipendio e al tempo stesso non sentire nessun legame affettivo con l’impresa per cui si lavora.
Mito #4 – Chi offre prestazioni eccellenti evidenzia il suo attaccamento all’azienda
Prestazioni eccellenti denotano sicuramente un buon impegno e soprattutto ottime capacità ma questo non significa che il lavoratore sia devoto all’azienda.
Le persone che eccellono nel loro campo di solito non mostrano grande devozione per l’azienda, visto che le loro capacità possono impiegarle anche presso altre imprese che magari offrono migliori condizioni.
Un modo per vedere se un lavoratore che offre prestazioni eccellenti è veramente fedele all’azienda e ai suoi programmi è quello di considerare la sua interazione con il sistema azienda. Aiuta le persone che lavorano con lui a crescere? Sa incoraggiarle? Promuove la visione e la missione dell’azienda presso i suoi colleghi e i clienti?
Mito #5 – Le persone colte hanno maggiore senso di responsabilità e si impegnano di più
È facile pensare che in ambienti dove le persone sono molto colte, l’impegno verso i propri doveri di lavoro sia maggiore. Non è vero.
Qui va chiarito anche un equivoco. Alcuni pensano che la cultura sia data dal titolo di studio. Chi ha studiato e si è laureato può avere una buona conoscenza tecnica del suo settore ma non è detto che sia una persona colta.
Un giorno, presso un mio cliente, assistetti al dialogo tra due impiegati. Uno era laureato in economia e ricopriva un ruolo dirigenziale, l’altro era solo diplomato e svolgeva mansioni d’ufficio. Il secondo aveva prodotto alcune cartografie che erano necessarie per il conseguimento di una certificazione di qualità. Il lavoro era così ben fatto che ai complimenti del primo rispose in tono scherzoso: “il mio secondo nome è Anassimandro.” Il povero economista rimase perplesso, non capì la battuta. Ignorava chi fossero i presocratici, figuriamoci Anassimandro, l’allievo di Talete che disegnò per primo la terra conosciuta (ecumene).
Va notato poi, come affermato da molti studi, che le persone colte hanno solitamente molti interessi al di fuori del lavoro – che ovviamente possono avere anche quelle meno colte – e che magari aspirano anche a qualcosa di meglio se si sentono troppo strette nel ruolo e nel tipo di impresa per cui lavorano.
Mito #6 – La devozione all’azienda è proporzionale alla remunerazione
Se così, dunque, possiamo comprare la devozione dei nostri dipendenti.
Il fatto è che la devozione implica un legame affettivo, quindi include l’emotività del soggetto, la quale, essendo un fattore irrazionale, non ha una dipendenza così diretta con il denaro. Atteso che le persone lavorano per necessità, si appassionano alla propria azienda se in questa riconoscono certi valori che per loro rappresentano imperativi categorici, o quasi.
Se una persona riconosce quale una delle massime virtù l’onestà e in azienda questa è praticata oltre ogni convenienza materiale, difficilmente lascerà il proprio posto di lavoro per un aumento di qualche centinaio di euro se la nuova azienda non garantisce gli stessi valori.
D’altra parte, le persone che dovessero ricevere un aumento per rimanere fedeli all’azienda, proprio per questo motivo non dimostrerebbero nessun attaccamento emotivo.
Sono i valori rispecchiati nell’ambiente di lavoro e nella pratica quotidiana delle interazioni con i soggetti interni ed esterni all’impresa che fidelizzano il personale.
Mito #7 – Investire nel personale è solo un costo
Per fortuna questa errata opinione va sempre più scomparendo.
Certo che la formazione costa, come costa dotarsi dei giusti strumenti, offrire benefit etc.
Tuttavia, mantenere livelli alti di soddisfazione nel lavoro si traduce anche in livelli alti di qualità e quindi in ottimi risultati.
Tutti sappiamo che ci sono momenti di congiunture sfavorevoli nell’economia, che possiamo avere aziende super organizzate, creare ambienti di lavoro favolosi e produrre con una qualità elevatissima e tuttavia soffrire perdite e perfino fallire. Questo è successo e non possiamo nascondercelo.
È vero però che le aziende avanzate che propongono alta qualità in tutte le fasi del ciclo produttivo, quindi standard elevati di formazione, di attrezzature, di software, di comfort, di prodotti e servizi offerti, avranno in genere molta più facilità nel gestire le emergenze e nel trovare nuovi mercati.
Pertanto, quello che appare essere un costo, contribuisce a creare i requisiti fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi: conoscenza, cooperazione, devozione, qualità, fidelizzazione, risultati.
Conclusioni
In generale, va tenuto conto che l’attaccamento all’azienda e l’impegno sul lavoro sono fattori temporali, possono cioè essere praticati per un certo periodo e andare poi scemando fino a scomparire. Perché? Perché stiamo parlando di persone e non è possibile applicare l’assioma “Lasciate i vostri problemi fuori dall’azienda”
È una pretesa sciocca che non tiene conto dell’irrequietezza dell’animo umano e della sua impossibilità di scindersi, a meno che non sia presente una qualche forma di schizofrenia. È una nevrosi del nostro tempo che ci impone una visione malata e viziata della realtà.
L’equivoco è che prima dobbiamo conoscere bene noi stessi e la nostra azienda e poi trasferire valori, prassi e obiettivi alle persone che lavorano con noi. Dobbiamo farlo da leader che creano fiducia e ottimismo e non da tiranni che impongono ordini e divieti.
Come mi ha insegnato un amico psicologo, la psicanalisi non è un metodo per guarire la malattia, è un metodo per conoscere meglio sé stessi. E conoscere meglio noi stessi ci aiuta a comprendere meglio le nostre potenzialità e chiarire i nostri obiettivi.
Ogni azienda deve avere una sua personalità e adattare il metodo di organizzazione alle capacità di chi vi opera. I modelli preconfezionati servono come linee guida non sono codici da applicare passivamente.